Long-form is back?

Stanco di seguire il gregge del “Less is more”, di chi scrive che Internet ti rende stupido o dell’ennesima slide con su scritto che un pesciolino rosso ha una soglia di attenzione superiore alla tua? Bene, siamo in due.

Giovanni Balsamo
12 min readDec 4, 2020

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Parto da una premessa di fondo: se vuoi crescere in questo settore, devi sfidare ad uno ad uno tutti i dogmi che lo ossessionano. Dogmi che tendono a tarpare le ali al tuo pensiero strategico e creativo, trasformando il tuo lavoro in un processo monotono (a volte asfissiante). Se non fai questo esercizio di dubbio metodico, ti precludi la possibilità di aprire la mente a nuovi orizzonti.

Il dubbio, la messa in discussione di un dogma, è una caratteristica insita nell’uomo perché necessaria a farlo progredire. A proposito di dogma, vuoi un esempio concreto e ben radicato nel mondo del marketing e della comunicazione digitale? “Shorter is better”. Sono anni che questo dogma pende come la spada di Damocle sul capo di chi lavora nella nostra amata industry digitale. È arrivato il momento di tagliare quel crine di cavallo che sorregge la spada e tornare ad essere liberi di pensare di poter seguire anche una strada diversa. Ma andiamo per gradi.

La nostra capacità di attenzione è davvero di appena 8 secondi?

L’8 aprile scorso incrociai un post dedicato a Emil Cioran che ne celebrava la nascita con un aforisma. L’aforisma in questione, “Non sono mai a mio agio nell’immediato”, mi rapì letteralmente. Il perché era semplice: rifiutando il concetto di immediatezza, Cioran sembrava che stesse declassando il presente a mero fastidio. Ed era proprio quello che stavo provando mentre scorrevo velocemente il feed dei miei social in pieno lockdown. Quella frase tanto breve quanto profonda mi portò a riflettere sul perché di quel mio fastidio e a pensare di scrivere questo articolo sul long-form covato, forse, per troppo tempo.

Viviamo in un’epoca dove abbiamo accesso costante e immediato a tutto. Non dobbiamo quasi mai aspettare una risposta da parte di qualcuno a una domanda o leggere articoli interi su qualsiasi cosa per avere un’idea su ciò che ci incuriosisce. Siamo abituati ad un accesso istantaneo e continuo alle informazioni che, se non filtrate, ci possono disorientare. Non è un caso se, da un po’ di anni a questa parte, la più grande abilità che ci dicono di coltivare è di saper catalogare il più velocemente possibile la mole sterminata d’informazioni che ci travolgono. E cosa significa “catalogare”? Forse raccogliere secondo un certo ordine, o in base a determinati criteri, qualcosa a favore di ricerche future?

Pesce rosso vs Uomo: lo studio di Microsoft che ha segnato un’epoca.

Sembra che per molti la nostra mente sia considerata ostile alla quiete dell’introspezione, predisposta a procrastinare o sopprimere qualsiasi impulso alla conoscenza approfondita di un argomento. Ma è così che stanno le cose? Siamo davvero dinanzi al dissolversi del pensiero lineare e meditativo o ad una sua mutazione irreversibile?

Se così fosse, dovremmo dare per assodato che il circo mediatico in cui siamo immersi continuerà a popolarsi sempre di più di mangiatori seriali di surrogati di pensiero. Quelli che vogliono darsi un tono di norma li etichettano come fruitori di “snackable content” con la capacità di attenzione inferiore a quella di un pesce rosso. Questi qui sono gli stessi che vi consiglierebbero di consultare uno studio di Microsoft (Canada) secondo cui il tempo di concentrazione di un uomo (in media di 12 secondi) dal 2000 al 2015, è sceso a 8 secondi.

Insomma, in quindici anni pare che abbiamo perso per strada come se fossero noccioline quattro secondi. Il che ci porterebbe a fare un passo indietro con tanto di cappello rispetto al nostro amato e diligente pesce rosso. Lo stesso report, datato di 5 anni e che non sembra tenere in considerazione che lo span d’attenzione di un individuo si leghi al task specifico che svolge, sostiene che facciamo fatica a concentrarci per un motivo preciso: le informazioni che riceviamo sono troppe e il nostro cervello non ce la fa a valutarle tutte rapidamente.

Lo stesso studio, condotto su un campione di 2.000 canadesi, indica come causa di questo fenomeno il nostro stile di vita digitale. L’aumento vertiginoso dell’uso della tecnologia dovrebbe essere la causa principale del progressivo deterioramento della nostra soglia di attenzione.

Forse siamo meno stupidi di quello che molti guru vogliono farci credere.

Ora, visto che “Io dubito di tutto e mi trovo sempre nel dubbio” (cit. Tolstoj, segnatela potrebbe tornarti utile), mi viene da pormi una domanda: se le cose stessero veramente così, com’è che mi trovo dinanzi all’ascesa della fruizione di podcast, al boom di piattaforme di live streaming (una su tutte Twitch), alla rinascita dell’incompreso Medium, a un utilizzo sempre più complesso da parte di persone comuni, brand e influencer, di dirette su Facebook e Instagram o della stessa IGTV?

Volete un esempio for dummies? Le dirette Instagram di Bobo Vieri , dove il bomber dei bomber parla per ore senza filtri, saltarellando tra aneddoti, imitazioni e figuracce (ora anche su Twitch). E, attenzione, lo fa proprio come facciamo tutti noi tra amici con l’unica e non trascurabile differenza che lui lo fa spesso anche davanti a più di 60mila persone.

Senza dubbio lo spettacolo più divertente mai trasmesso (e da me seguito) in diretta live su Instagram durante il lockdown. Ovviamente sfido tutti i veri amanti del calcio e del bomberismo a sconfessarmi. Cos’è successo? Abbiamo per caso cambiato il nostro stile di vita digitale? Siamo forse meno bombardati da news, post, mail e challenge su TikTok di ogni genere? Si è per caso ridotto l’uso della tecnologia negli ultimi tempi?

Non credo proprio. E non venite a dirmi che ognuno dei trend poco fa menzionati abbia proliferato grazie all’isolamento sociale che ci ha tenuti segregati in casa per alcuni mesi. Meglio non peccare di superficialità come molti dei nostri politici su questioni ahimè anche più serie. Se volete i nomi, contattatemi pure in privato. Tornando a noi, i trend erano evidenti e da tempo. La realtà è che dall’altra parte del recinto (dell’agenzia in cui lavoro, ma come di ogni azienda) troviamo delle persone, non dei pesci rossi! E le persone non sono stupide come hanno voluto farci credere molti guru del marketing e della comunicazione negli ultimi anni.

Sì, è il momento di trollare gli integralisti dello “Shorter is better”.

Le persone leggono, guardano, ascoltano, e lo fanno per tutto il tempo che vogliono, solo se interessate. Ripeto, per i più duri di comprendonio, solo se interessate. Cosa c’è alla base di questa mia affermazione? Il libero arbitrio: la libertà di ciascun individuo di scegliere lo scopo e il tempo del suo agire, pensare, ascoltare e condividere qualcosa. Insomma, quello che ti ha fatto arrivare a leggere questo articolo “peso” fin qui.

Appare evidente, sulla base di quanto scritto fin qui, che la mia volontà sia di sfatare uno dei tanti dogmi del nostro settore: quello che per accaparrarsi la risorsa più preziosa e limitata di questo mondo digitale, e cioè l’attenzione delle persone, sia essenziale creare dei contenuti sempre più brevi, disruptive e impattanti. Giusto per usare tre aggettivi poco inflazionati.

Chi lavora in questo settore, dall’Head of Strategy all’Head of Performance, dal Project Manager al Community Manager, dall’Art Director al Copywriter, deve capire che per le persone (tutte) c’è un tempo per la raccolta e la catalogazione delle informazioni in tempi rapidi e un tempo molto più lungo per l’approfondimento di quelle informazioni giudicate rilevanti per affinità, interesse o anche solo per pura curiosità.

Se affermo questo, è perché credo che sia necessario distinguere una finta minaccia da una concreta. La finta minaccia è di trovarsi davanti sempre più cacciatori bulimici di “snackable content” con lo span di attenzione inferiore a quello di un pesce rosso.

La minaccia concreta è di perdere la consapevolezza del fatto che chi sta dall’altra parte del nostro famoso recinto (e tra questi mi ci metto anch’io) possa avere la capacità di trovare il giusto equilibrio tra due stati mentali apparentemente agli antipodi: quello dinamico non-lineare e quello contemplativo e lineare.

Su questo argomento vi do un consiglio di lettura per il Natale (il libro è di qualche anno fa, ma ancora attualissimo): Internet ci rende stupidi? di Nicholas G. Carr. Sei anni fa, in un altro mio articolo su Medium, per rappresentare questo scenario coniai questa metafora:

“Una volta eravamo come dei palombari immersi in un mare di parole e di informazioni, ora sfrecciamo a grande velocità sulla superficie di quello stesso mare come dei surfisti”.

Attenzione, ciò non significa che abbiamo perso la capacità di tuffarci e di scoprire cosa c’è sul fondo di questo mare. Per far sì che questo accada deve però esserci qualcosa che catturi il nostro interesse e che ci spinga ad andare a fondo. E a dettare le condizione per andare a fondo è la nostra attenzione ormai sempre più selettiva. È come se avessimo affinato nel corso del tempo l’abilità di concentrarci sugli stimoli rilevanti, ignorando quelli irrilevanti a cui forse dedichiamo anche meno dei famosi 8 secondi di attenzione attestati dallo studio di Microsoft.

Tutto ciò ha delle conseguenze per i brand e per tutti coloro che operano sul web e attraverso il web, poiché mette in discussione l’approccio che è stato utilizzato fino a questo momento. E, perché no, trolla la spavalderia degli integralisti dello “Shorter is better!”. Una fazione che dati alla mano ha parecchie frecce al suo arco. Tuttavia i dati vanno sempre interpretati, contestualizzati e a volte messi in discussione.

Se non lo facessimo, saremmo dei robot. I robot fanno lavori ripetitivi in un contesto preciso, ci sarà pure un’evoluzione nella robotica, ma i computer meccanici e tradizionali non avranno mai la capacità di porsi delle domande, di mettere in discussione il proprio operato o dei semplici numeri. “Non mi fido molto delle statistiche, perché un uomo con la testa nel forno acceso e i piedi nel congelatore statisticamente ha una temperatura media”, scriveva Charles Bukowski e forse non aveva tutti i torti.

La narrazione del tl;dr applicata ai contenuti dei brand è OLD.

Qui non si tratta di cancellare quanto fatto fino a questo momento, ma di iniziare a metterlo in discussione per tentare di superare un dogma: la narrazione del tl;dr applicata ai contenuti dei brand come unico strumento per raggiungere e catturare l’attenzione delle persone.

Per chi non lo sapesse, la sigla tl;dr sta per “Too long, didn’t read” e non è nuova: nel 2013 è stata inserita nell’edizione online del celebre Oxford Dictionary, ma l’origine è addirittura precedente. I primi utilizzi della sigla tl;dr risalgono addirittura al 2003. Nei forum il tl;dr è nato come risposta a chi scriveva troppo, all’eccessiva verbosità, alle pretese di attenzione su testi che probabilmente non la meritavano.

“Troppo lungo, non l’ho letto” era l’etichetta da appiccicare ai quei post da sconsigliare agli altri. Ma il nostro mondo non è un forum e non si decide di leggere qualcosa, basandosi unicamente sul fatto che un testo sia “troppo lungo” o, per assurdo, “troppo corto”. Il vero fattore discriminate è la qualità di quello che c’è scritto in quel testo, lungo o corto che sia (vedi l’aforisma di Cioran citato all’inizio di questo mio articolo).

A scanso di equivoci, non intendo screditare l’utilità dei contenuti brevi. Sostengo però che l’utilizzo di storie dalla narrazione più estesa, strutturata e pregna di significato, non è da condannare a priori. Anzi, se ci sono le giuste condizioni per farlo, il long-form dev’essere un’opzione importante da tenere in considerazione. Vogliamo che i brand si introducano di soppiatto nei feed delle persone cercando di conquistare quelle che definirei “briciole” di attenzione oppure vogliamo aiutarli a fare uno step in avanti, qualora ci fosse una volontà e consapevolezza reale da parte loro?

Come? Magari creando i presupposti per stimolare le persone ad un coinvolgimento più profondo. E la conditio sine qua non per farlo sono le storie che andiamo a pensare e la qualità della narrativa che esse si portano dietro. È da quest’ultima che dipende la potenza persuasiva di un contenuto e di conseguenza l’interesse, il coinvolgimento e il tempo di attenzione delle persone. Non da altri fattori.

L’importanza del long-form da Omero al binge watching su Netflix.

Le storie hanno sempre avuto un’importanza cruciale nell’esistenza dell’uomo, lo hanno aiutato a combattere la banalità della quotidianità, a trovare un rifugio, un nuovo posto nel mondo e a volte addirittura a cambiarlo questo mondo.

Le storie, quelle che persuadono mischiando alla perfezione èthos e pàthos, sono una necessità umana innata. Poco importa poi se queste storie siano vere o immaginarie: la cosa che conta è che continuino ad accompagnarci nella nostra vita, digitale e non. Le storie, se orchestrate bene, sono la linfa vitale, perché la mente umana è fatta per funzionare con esse. Non è un caso se tutte le volte che leggiamo una storia, guardiamo una serie su Netflix o ascoltiamo un podcast, nel nostro cervello s’innesca un meccanismo di gratificazione istantanea.

Ogni storia segue una struttura che descrive relazioni fra cause ed effetti in determinati eventi, che hanno luogo in un arco temporale preciso e che portano a delle conseguenze. A farne le spese sono tutti quei personaggi, protagonisti o meno della storia, che impariamo ad amare o odiare in base a quanto riusciamo ad immedesimarci in essi.

Tutto questo, oltre ad essere pane per la nostra mente, è garanzia indiscussa di rilevanza e attenzione. Se ci focalizzassimo di più sul creare delle storie, quelle vere, iniziando a mettere in discussione il dogma che un brand debba comunicare per forza tramite messaggi lampo o video “corti, verticali, possibilmente disruptive e con ben visibile il prodotto e il logo della marca”, forse potremmo fare non uno, ma due o tre passi in avanti.

Long-form storytelling: ecco perché non se n’è mai andato.

È arrivato il momento di essere più sofisticati e meno scontati, di abbattere alcuni dogmi di settore che ci frenano nel prendere in considerazione qualcosa di diverso da quello che molti dei nostri clienti si aspettano di ricevere.

Per fare questo bisogna sempre tenere in considerazione la tipologia di cliente, il contesto storico in cui ci muoviamo, la sensibilità del referente, gli obiettivi di progetto, il budget e la sostenibilità della sfida “long-form” per il team. Tuttavia ognuno dei fattori elencati assume rilevanza zero, se prima non si comprende il perché sia necessario cambiare l’approccio standard e alternare con sapienza “instant storytelling” e “long-form storytelling”.

Siamo esseri narrativi. Nasciamo per ascoltare e raccontare storie e non considerarne l’importanza è un atto di superficialità estrema per chi come me lavora in settori come quelli della Comunicazione e del Marketing. Aprire la mente alla comprensione del perché si debba considerare il long-form non come un’alternativa, ma come un’opzione in più, è solo il primo step. Il secondo consiste nel porsi una domanda: ho intorno a me un team composto da figure professionali (e soprattutto menti!) in grado di “orchestrare” una struttura narrativa importante? Se la risposta è no, meglio desistere subito.

Se invece la risposta è sì, tutto il team in questione (che può tenere insieme competenze interne e in alcuni casi esterne all’agenzia) dallo Strategist al Project Manager, dal Copywriter all’Art Director, dal Fotografo all’Illustratore, dal Podcaster al Videomaker, deve avere la consapevolezza di dover lavorare di qualità. Senza tale consapevolezza, senza la qualità, qualsiasi budget per il nostro “marketing dei contenuti” e qualsiasi agenzia che fa di esso il suo core business potrà affondare le sue radici in un terreno stabile e soprattutto fertile.

Il long-form non è tornato, è semplicemente cambiato ed è una cosa seria, perché il “raccontare” una storia (legein) nel senso più autentico e originario della tradizione greca implica suscitare un’intima risonanza. Cos’erano d’altronde i miti dell’Antica Grecia se non storie che scuotevano dal torpore, rapendo letteralmente l’attenzione di chi le ascoltava e coinvolgendo personalmente ed emotivamente anche lo stesso narratore?

Ogni storia, se ben costruita e raccontata, è contemporaneamente un cibo per la nostra mente e un atto di responsabilità che richiede preparazione e tempo. Un tempo per la scrittura e un tempo per l’ascolto, la visione o la lettura.

Conclusioni

A chi sostiene con convinzione che il long-form sia tornato di punto in bianco dico che è in fallo. Il long-form non se n’è mai andato: l’abbiamo mandato al rogo come se fosse un eretico, tolto dalle fiamme all’ultimo momento e spedito in esilio (apparente). Diciamocela tutta: il long-form è stato percepito con astio e disprezzo per anni come se fosse un clandestino o un appestato. Nel mentre, però, questo reietto si stava trasformando sotto i nostri occhi e senza che ce ne accorgessimo.

Perché long-form non è (solo) questo articolo, uno di Paolo Iabichino, un post di Matteo Bianx, la Bibbia o un saggio di Montesquieu, ma ogni contenuto, in qualunque formato, concepito per catturare l’attenzione delle persone per un tempo superiore a quei pochi secondi in cui qualsiasi inserzionista consiglierebbe di giocarsi il tutto per tutto. Attenzione, Facebook stesso opterebbe per il medesimo consiglio e parlo dell’azienda e canale pubblicitario, non tanto il social network con 2.5 miliardi di utenti attivi ogni mese.

Definire cosa sia un contenuto long-form oggi non è solo una questione di tempo di coinvolgimento o di forma, ma anche di finalità intrinseca. Long-form è sinonimo di approfondimento, volontà di sviscerare, setacciare, analizzare e guardare da diversi punti di vista un argomento, un brand o anche semplicemente un prodotto. E non c’è scritto da nessuna parte che long-form sia un modo di comunicare e comunicarsi anacronistico. Anzi.

Ora, se non hai più voglia di seguire il gregge del “Less is more” e ti assale davvero il desiderio di fare non uno, ma tre passi avanti verso ciò che coinvolge profondamente il tuo pubblico, puoi fare una cosa molto semplice: imparare a considerare il long-form come una possibilità da tenere in considerazione sempre (non dà escludere a priori e per partito preso). Chi fa questo è esattamente ciò che pensa sia il long-form: OLD dalla testa ai piedi. Siamo giunti al termine, perché ogni articolo così come ogni storia (anche se long-form²) deve avere una fine.

Ps: dove le parole finiscono iniziano le case study. Fidati, non è una marchetta. Quelle le lascio agli altri, così come le carrellate di best practice non proprie.

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